E’ andata bene. Il corteo che ha percorso il centro di Torino ha raccolto oltre millecinquecento persone.
Non era una scommessa facile. Gli attivisti dei gruppi politici e delle organizzazioni sindacali che hanno costruito lo sciopero e la manifestazione del 26 ottobre ne erano consapevoli. Abbiamo gettato il cuore oltre l’ostacolo spinti dall’urgenza di riattraversare il territorio cittadino con una manifestazione che mettesse al centro le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici, che, nonostante i tempi bui, si battono nei posti di lavoro, per le strade e i quartieri. Lavoratori e lavoratrici che sanno che nulla viene regalato, che si ottengono risultati mettendo in difficoltà i padroni e i governi, facendo loro del male, costruendo un fronte ampio, in cui si intersecano le lotte per il salario e la diminuzione d’orario con quelle ambientali, antimilitariste, antirazziste, di opposizione alla stretta securitaria.
Nei settimane precedenti assemblee, presidi, volantinaggi, hanno preparato lo sciopero in città.
Due sere prima sono stati appesi striscioni firmati FAI di sostegno allo sciopero all’INPS, Unione Industriale, Elpe, Cgil, Microtecnica, luoghi simbolo dello sfruttamento e delle lotte in corso. All’INPS, in corso Giulio Cesare, è stato appeso lo striscione “Né con Fornero né con Salvini! 26 ottobre sciopero generale!”. All’Elpe di via Tollegno, agenzia interinale, una delle centrali del lavoro in affitto, precario e senza tutele, è stato appeso lo striscione “No ai nuovi caporali! 26 ottobre sciopero generale!”. All’Unione Industriali è stato appeso lo striscione “Padroni… la pacchia è finita! 26 ottobre sciopero generale!”. Alla sede della CGIL in via Pedrotti è stato appeso lo striscione “Contro i burocrati, per l’autorganizzazione dei lavoratori. 26 ottobre sciopero generale!”. Alla Microtecnica di piazza Graf è stato appeso lo striscione “Chiudere le fabbriche di morte. 26 ottobre sciopero generale!”.
Il corteo è stato aperto da due striscioni unitari “Non ci sono governi amici” e “prima gli sfruttati”. Significativa la presenza della CUB, che è stata l’asse portante dello spezzone sindacale. Abbiamo fatto tappa in luoghi simbolici dello sfruttamento e delle lotte in corso, blindati e resi quasi inaccessibili da una Questura, determinata ad impedire le voci critiche verso il governo della città, della regione e del paese.
Il corteo è partito dai giardini di piazza Carlo Felice di fronte alla stazione di Porta Nuova dove la polizia è intervenuta per impedire ad alcuni compagni della Federazione Anarchica di chiudere simbolicamente gli ingressi con filo bianco e rosso cui era stato appeso il cartello “Le frontiere uccidono”, ma i compagni sono riusciti comunque a srotolare diversi metri di filo in barba ai poliziotti, mentre l’azione veniva raccontata ai passanti, spesso ignari che un luogo di passaggio come la stazione sia divenuto vera frontiera per i tanti migranti in viaggio verso la Francia. Il giorno precedente un giovane africano senza documenti si era lanciato dal treno per sfuggire ai controlli, spezzandosi l’osso del collo. L’ultima delle vittime delle frontiere che attraversano la nostra città.
Poi siamo passati nei pressi di Confcommercio, dove hanno preso parola i lavoratori degli ipermercati, obbligati dalla legge e da accordi sottoscritti dai sindacati di stato alle domeniche lavorative senza straordinario pagato, che sanno bene che qualche chiusura domenicale in più modificherà ben poco la loro condizione.
Poi il corteo si è dipanato verso il MIUR, dove hanno preso la parola le maestre diplomate in lotta per il posto di lavoro, molte delle quali avevano ceduto alle lusinghe pentastellate, e si sono ritrovate con un pugno di mosche, obbligate a passare dalle forche caudine di un nuovo concorso. Il loro striscione aveva la scritta “Maestre di lotta”.
Nei pressi della sede del consiglio regionale è intervenuto un lavoratore delle residenze psichiatriche, che la nuova legge regionale ha trasformato in piccoli manicomi. Una lavoratrice delle case di riposo per anziani ha raccontato con rabbia le condizioni di lavoro da catena di montaggio, che umiliano chi lavora, privando di dignità le persone costrette dalla povertà in luoghi dove conta solo spendere il meno possibile.
L’accesso alla piazza del Comune, che ormai da mesi è concessa solo al PD, era chiuso da poliziotti in assetto antisommossa. Sono intervenuti i lavoratori dei nidi e delle materne comunali, in lotta contro i continui tagli alla spesa, che penalizzano sia i bimbi che chi ci lavora in condizioni sempre più pesanti.
I compagni della Federazione Anarchica hanno aperto uno striscione con la scritta “Morti in mare: Salvini e Toninelli assassini” di fronte alla polizia, per ricordare le responsabilità del governo nella guerra ai poveri che si consuma ogni giorno nel Mediterraneo e sul confine francese.
Lo spezzone rosso e nero, aperto dallo striscione “Contro stato e padroni. Azione diretta” è stato molto vivace e partecipato.
Il corteo si è concluso davanti alla sede della Regione in piazza Castello, dove era stata allestita una merenda No Tav, e ci sono stati gli interventi di chiusura.
Forte la consapevolezza di essere riusciti a costruire una giornata importante per la ripresa del conflitto sociale, su una strada sempre più in salita.
Sin qui la cronaca.
Val la pena tentare di tracciare il quadro in cui si inserisce questo sciopero d’autunno di un sindacalismo di base indebolito dalla scelta di alcune organizzazioni di firmare gli accordi sulla rappresentanza del gennaio 2014. Questi sindacati non hanno indetto sciopero: l’USB è arrivata ad promuovere assemblee sindacali a scuola lo stesso giorno, dopo aver organizzato un corteo la settimana precedente che strizzava l’occhio al governo, avendo come obiettivo le nazionalizzazioni.
Torino si è trasformata da città dell’auto a vetrina di grandi eventi, un grande Luna Park per turisti, mentre le periferie sono in bilico tra riqualificazioni escludenti e un parco giochi per carabinieri, alpini e poliziotti.
Sfruttamento, lavori precari e pericolosi, leggi razziste, militari per le strade, guerra sono i tasselli del puzzle che disegna il nostro vivere.
La gente delle periferie sente in bocca il sapore agre di una vita sempre più precaria.
Oggi governano Torino i populisti, razzisti e giustizialisti a 5 Stelle, che si congratulano con la polizia che reprime i No Tav e arresta gli anarchici.
La questura ha moltiplicato retate e controlli, per cacciare i senza carte e senza tetto, per fare pulizia etnica e sociale.
La situazione non è facile e potrebbe peggiorare.
Il consenso all’estrema destra populista è sempre più forte, perché riesce a catalizzare un malcontento sociale diffuso.
Quasi quarant’anni di attacchi riusciti alle condizioni di vita di chi deve vivere di lavoro sono tanti.
Trent’anni fa si stava meglio di oggi. C’è stato un tempo, che sta svanendo nella memoria, che le scuole erano gratuite, non c’erano ticket per medicine, esami e visite mediche, gli affitti erano bassi, poche persone vivevano in strada, si andava in pensione dopo 35 anni di lavoro, si lavorava meno per salari più alti.
Non era merito dei governi o dei padroni che si arricchiscono sfruttando il lavoro altrui. Tutto quello che i poveri di questo paese hanno ottenuto era frutto di lotte durissime condotte insieme nei luoghi di lavoro, nei quartieri, nelle scuole.
I lavoratori e le lavoratrici, chi stava in fabbrica e chi era in casa, si sono battuti per riprendersi parte di quello che ci viene rubato da chi è ricco e vorrebbe esserlo di più. Per i padroni la nostra fatica quotidiana è solo un costo da abbattere, da eliminare.
C’è stato un tempo in cui i lavoratori e le lavoratrici hanno fatto paura ai governi e agli imprenditori, che temevano per le loro poltrone e per i loro profitti, avevano timore che le lotte mutassero di segno, che si finisse con l’attaccare il diritto alla proprietà privata e la legittimità dello Stato.
In trent’anni si sono ripresi tutto.
Salute, istruzione, trasporti sono un lusso, i salari sono diminuiti, le ore di lavoro aumentate, tanta gente finisce in strada perché non può pagare l’affitto. Il lavoro, quando c’è, è sempre più pericoloso, precario, malpagato. I giovani campano di lavoretti, gli anziani non possono andare in pensione.
É stato un processo lungo, che ha disarticolato le condizioni materiali e simboliche, che davano forza alle lotte degli sfruttati.
La quarta rivoluzione industriale, come le precedenti, mira a ridurre il costo del lavoro e a realizzare un controllo capillare, continuo, individualizzato su chi lavora. I chip sottopelle, i braccialetti dei facchini e magazzinieri Amazon, sono l’ultima frontiera della lunga reazione padronale alle lotte degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Tutto è cominciato con lo sbriciolamento territoriale delle unità produttive, con l’abbandono della proprietà diretta dei luoghi e dei mezzi di produzione a favore di forme “leggere”, con la frantumazione fisica e normativa delle grandi aggregazioni industriali o di servizio. Spezzatini societari, esternalizzazioni, appalti e subappalti sono stati lo strumento usato per dividere ed isolare i lavoratori. I governi hanno offerto il quadro normativo che ha liberato le mani di imprenditori e manager. In questi anni è stata sdoganata l’intermediazione di manodopera con una miriade di agenzie interinali. Diritti e tutele acquisiti con le lotte, venendo meno la forza degli sfruttati, sono stati cancellati. Le leggi, anche quelle di tutela, sono solo il precipitato normativo del rapporto di forza tra classi e gruppi sociali. Se i padroni segnano punti nella guerra di classe, le vite degli sfruttati diventano sempre più ricattabili e precarie.
Non solo. Si è spezzato un immaginario. Il liberismo trionfante si è imposto anche nella rappresentazione di chi deve lavorare per vivere. L’accesso a servizi e beni fondamentali e la riduzione della sperequazione normativa e salariale non è più un obiettivo collettivo ma premio per chi lo merita.
Oggi il populismo leghista e pentastellato è l’orizzonte culturale di tanta parte della generazione nata o diventata precaria, che vive senza garanzie né futuro, ed aspira a protezioni e tutele statali.
Reddito di cittadinanza, aumento delle pensioni minime, pensione anticipata, esclusione degli immigrati dalle misure destinate agli italiani: su questi temi Lega e 5Stelle hanno fatto le loro fortune elettorali.
Questi provvedimenti sono una truffa o una mera elemosina. I poveri devono sottostare a regole che li infantilizzano e li tengono sotto costante ricatto. Il governo usa il bastone e qualche carotina per prevenire le insorgenze sociali. La reazione alla ferocia neoliberista si esprime nel sogno di comunità nazionali chiuse ed escludenti, dove la cesura di classe cede il passo alla divisione tra cittadini e stranieri, tra il buon capitale produttivo e la finanza anomica e mondialista.
In Italia, ben diversamente da un secolo fa, il fascismo non nasce dalla paura della rivoluzione, ma dal timore che un processo di globalizzazione feroce possa schiacciare anche i poveri dei paesi ricchi. Il cemento dei populisti è la paura: difficilmente il governo giallo verde potrà fugare i timori di una condizione che nel concreto non riuscirà neppure ad alleviare.
Non solo. Qua e là si aprono crepe. La consapevolezza che il sovranismo non è la ricetta che pone al riparo dalla tempesta liberista riapre spazi per le lotte e la progettazione rivoluzionaria.
Questo sciopero è stato un tassello piccolo ma importante. Durante i volantinaggi nei mercati e le assemblee che lo hanno preparato è emersa una crescente indignazione verso le politiche del nuovo governo, segnali piccoli ma importanti di un venticello che allude alla possibilità di un mutare dei tempi.
La strada è in salita ma il sentiero che talora si perde nel bosco, qua e là si allarga lasciando intravedere radure e panorami più ampi.
maria matteo